di Giuseppe Lalli

La morte di Giustino Pacifico (una vita trascorsa alla direzione del patronato Acli dell’Aquila, nonché spesa generosamente nell’impegno politico e sociale della comunità locale), popolarissimo e stimato nella sua Paganica, e il riferimento, quanto mai appropriato, che il suo concittadino Goffredo Palmerini, giornalista e scrittore, nel commosso e significativo ricordo dell’amico scomparso, ha fatto a Emmanuel Mounier (1905-1950), forse il massimo teorico del personalismo cristiano, mi inducono ad una riflessione su questo originale pensatore cattolico della prima metà del Novecento.

Si verifica a volte per alcune persone che espressioni, atteggiamenti, scelte, persino “tic” riferiti alla loro vita privata, rivelano la qualità morale del loro carattere più di quanto avrebbe potuto fare un trattato o una conferenza. È questo il caso di Emmanuel Mounier.

Mounier

Poche settimane prima della sua morte (avvenuta nel 1950, a soli quarantacinque anni, maturo per il Cielo e per la terra), così scriveva ad un suo amico: « Sono un “intellettuale”. Questa parola richiama alla mente un certo numero di atrofie e di “tic”. Mi guarderò dal credermene esente. Ma spesso ripenso con riconoscenza ai miei quattro nonni contadini, veri contadini tutti e quattro, con le scarpe infangate, la levata alle tre ed una fetta di salame in mano. […] Quando mi ribello all’ipocrisia, alle espressioni ampollose, alle piroette o, sull’altro versante (l’Università), all’agghiacciante atteggiamento di sussiego avverto uno dei nonni che reagisce in me, il suo sano realismo che mi scorre nelle vene, l’aria dei suoi campi che purifica i miei polmoni […] ». E a un altro amico, nel 1936, confessando di sentirsi un montanaro, si paragona all’acqua di un lago di montagna :

« Nessuna increspatura alla superficie, una limpidezza disumana, ma il torrente rumoreggia sul fondo […]. Temperamento diseguale, di gusti nativi, insomma impulsivo, e fatto più per la contemplazione libera del cielo e della terra che per le iniziative e i dogmatismi » .

Nasce a Grenoble nel 1905. Dapprima si iscrive alla facoltà di Farmacia, per seguire la professione del padre; poi, divenuto cosciente della sua vera vocazione, passa al corso di Filosofia. Il padre, per nulla sorpreso, lo presenta a Jacques Chevalier (1882-1962), che era stato assistente di Henry Bergson (1859-1941), e che in quegli anni insegnava all’Università di Grenoble, con queste parole: « Professore, ecco mio figlio, che vuole studiare filosofia per fare apostolato ». Si laurea brillantemente, per poi proseguire gli studi alla Sorbona di Parigi ed ottenere l’abilitazione all’insegnamento, piazzandosi, nel relativo concorso, al secondo posto, dopo Raymond Aron (1905-1983). Per un po’ di anni insegna filosofia nei licei, avendo cura di scegliere le scuole non statali, che a quel tempo assicurano maggiore libertà intellettuale. Nel 1924 aveva conosciuto Jean Guitton (1901-1999), anche lui ex allievo di Chevalier, che gli sarà compagno di passeggiate e di istruttivi incontri comunitari nei boschi vicino a Grenoble, alla ricerca di orizzonti nuovi da schiudere all’impegno sociale e culturale di giovani e un po’ inquieti pensatori cattolici.

Agli inizi degli anni trenta risale il suo incontro con Jacques Maritain, (1882-1973) più vecchio di lui di una ventina d’anni: un’amicizia che rimarrà forte e leale anche nelle divergenze. È molto attivo, in questo scorcio di tempo, come pubblicista nel campo dell’impegno cristiano nella scuola. Nel 1932, dopo vari incontri di preparazione, fonda la rivista dal significativo titolo di « Esprit » , di cui sarà direttore ed infaticabile animatore, scegliendo « un cammino senza ritorno » e rinunciando alla carriera accademica.

Nel 1935 sposa con Henriette Leclercq (1905-1991), che sarà la compagna di una vita, in un rapporto forte e reso ancor più spiritualmente fecondo dalla sofferenza. Nello stesso anno pubblica il volume Rivoluzione personalista e comunitaria, dove raccoglie i principali contributi apparsi su « Esprit » , nonché il saggio Dalla proprietà capitalista alla proprietà umana, scritto che illustra il programma sociale di quel movimento personalista a cui ha dato vita. Seguiranno altri scritti, politici e filosofici, tra i quali un saggio sul pensiero di Charles Péguy (1873-1914), un altro sull’esistenzialismo, un trattato di psicologia sul carattere.

Ma cerchiamo di comprendere i tratti fondamentali del suo pensiero personalista.

Nel primo numero di « Esprit », in un articolo dal titolo Rifare il Rinascimento, egli spiega in che cosa consiste la rivoluzione che propone. « Il Personalismo – egli scrive – è uno sforzo integrale per comprendere e superare la crisi del secolo XX nella sua totalità ». E questo, a suo avviso, sarà possibile solo a patto che al centro della discussione teorica e dell’azione pratica si ponga la persona. Ma in che cosa consiste il concetto all’apparenza semplice di persona?

Ebbene, innanzi tutto, « la mia persona – afferma Mounier in Rivoluzione personalista e comunitaria - non è la coscienza che io ho di essa. Ogni volta che io compio un atto di prelevamento della mia coscienza, che cosa prelevo? Il più delle volte, se non mi tengo ben saldo, prelevo solo frammenti effimeri d’individualità, labili come l’aria del giorno » . Né la persona si identifica, per il nostro pensatore, con quei personaggi che siamo stati in passato e che sopravvivono in noi per forza d’inerzia o per vigliaccheria; personaggi che ci illudiamo di essere, perché li invidiamo, e permettiamo loro di modellarci secondo quanto vuole la moda. Sono i nostri capricci. Se andiamo più a fondo nell’analisi di noi stessi, scopriamo i nostri desideri, le nostre volontà, le nostre speranze. Ma nemmeno tutto ciò costituisce ancora la nostra persona. « La mia persona – conclude Mounier – non coincide con la mia personalità. Essa è al di là del tempo, è un’unità data, non costruita, più vasta delle visioni che io ne ho, più intima delle ricostruzioni da me tentate. Essa è una presenza in me » .

Dopo aver dimostrato che la persona è inoggettivabile, egli specifica che essa « è il volume totale dell’uomo […] ; è in ogni uomo una tensione fra le sue tre dimensioni spirituali: quella che sale dal basso e l’incarna in un corpo; quella che è diretta verso l’alto e la solleva a un universale; quella che è diretta verso il largo e la porta verso una comunione. Vocazione, incarnazione, comunione sono le tre dimensioni della persona » .

Da questa rigorosa definizione per così dire “teorica” del concetto di persona, deriva all’uomo una altrettanto rigorosa norma di comportamento. L’uomo è chiamato a meditare sulla propria vocazione, vale a dire sul posto che deve occupare, e sui suoi doveri nella comunione universale. E siccome, d’altra parte, la persona è sempre incarnata in un corpo (siamo sempre anche corpo) e situata in precise condizioni storiche, di conseguenza « il problema non sta nell’evadere dalla vita sensibile e particolare, che si svolge tra le cose, in seno a società limitate, attraverso gli avvenimenti, ma nel trasfigurarla » . Inoltre, la persona, per raggiungere se stessa, deve donarsi alla comunità superiore, che chiama ed integra le singole persone. Da ciò risultano – conclude il nostro pensatore – i tre esercizi necessari per arrivare alla compiuta espressione della persona : 1) la meditazione, per la ricerca della propria vocazione; 2) l’impegno, vale a dire l’adesione ad un’opera che è riconoscimento della propria incarnazione; 3) la rinuncia a se stessi, che è iniziazione al dono di sé e alla vita in altri » . Se la persona manca di uno solo di questi esercizi, è lo scopo stesso dell’esistenza a venir meno.

Un impegno personale così rigoroso reclama una politica adeguata, che non può che essere una politica che guardi all’uomo nella sua interezza, materiale e spirituale. Sotto questo aspetto, Mounier rifugge, come si può intuire, sia dall’astratto moralismo, che è l’atteggiamento di chi, in buona o cattiva fede, si illude di cambiare la società cambiando gli individui, sia dall’idea, propria del marxismo (oggi, per la verità, sostituita da un generico e confuso sociologismo), che consiste nel credere che cambiando le strutture sociali l’uomo sarà salvo.

Ciascun lettore potrà giudicare se e in quale misura questa visione antropologica, che affonda le sue radici nel messaggio evangelico, ma che non disprezza il valore della cultura e della scienza, e che si pone in un atteggiamento di apertura verso il mondo e la storia, anticipando in questo un atteggiamento che sarà fatto proprio dalla Chiesa nel Concilio Vaticano II (visione che Mounier propone e che io mi sono sforzato di sintetizzare nei suoi elementi essenziali) sia in grado di confrontarsi con i problemi posti dalla società odierna. A me pare che in questa idea personalista ci sia una verità sull’uomo che prescinde da ogni riferimento cronologico.

Qualche annotazione, infine, per meglio comprendere la “persona” di Emmanuel Mounier. La sua prima figlia, Francoise, si ammalò dopo una vaccinazione antivaiolosa, cadendo in uno stato di incoscienza. Subito apparve chiaro che la piccolo era condannata a vivere « in una misteriosa notte dello spirito » . Appresa la notizia, Mounier scrive alla moglie: « Che senso avrebbe tutto ciò se la nostra bimba non fosse che un batuffolo di carne sprofondata non si sa dove, un frammento di esistenza senza senso e non già questa bianca, piccola ostia che tutti ci supera, un’immensità di mistero e d’amore che ci abbaglierebbe se si mostrasse ai nostri occhi? […] Dal mattino alla sera, non pensiamo a questa sofferenza come a qualcosa che ci viene tolto, ma come a qualcosa che doniamo, per non essere da meno di questo piccolo Cristo che è fra noi, per non lasciarlo solo, lui che deve attrarci, per non lasciarlo solo a soffrire con Cristo » .

Che cosa si può aggiungere alle stupende parole di questo cristiano coraggioso ? Mounier, inoltre, visse povero.

Volle non certo a caso chiamare la sua rivista “Esprit”, che in francese significa “spirito”, ciò che per lui veniva prima della materia, benché, come ho cercato di far comprendere, fosse disposto a riconoscere alla dimensione materiale dell’esistenza tutta la sua importanza.

Leggiamo nel suo diario che la sua straordinaria avventura editoriale iniziò con la partecipazione ad una Santa Messa, quasi a voler ricordare che per il cristiano la vita interiore (la preghiera: non ci vergogniamo a dirlo!) è l’anima di ogni apostolato.

Un santo piuttosto “pragmatico” del secolo scorso amava ripetere che le crisi mondiali sono crisi di santi...

8 luglio 2019

IN RICORDO DI GIUSTINO PACIFICO

Già direttore del Patronato Acli, fu assessore al Comune dell’Aquila e presidente della X Circoscrizione

L’AQUILA - Giustino Pacifico è deceduto ieri all’ospedale di Teramo, dove da qualche giorno era ricoverato. Era nato nel 1934 a Paganica, dove è sempre vissuto salvo un breve periodo passato a Lecce, dove andò a dirigere il patronato Acli di quella città. Giustino ha dedicato la sua vita agli altri, non solo nel lavoro che l’ha visto dirigere per decenni il Patronato Acli dell’Aquila. Il suo un servizio sociale, continuato anche dopo il pensionamento, verso tutti i concittadini che in lui avevano un punto di riferimento sicuro e affidabile.

Sempre aperto e disponibile, Giustino si prendeva direttamente cura di seguire pratiche amministrative e burocratiche di persone anziane e di chiunque ne avesse bisogno. Lo ha fatto con regolarità e continuità fino a quando le condizioni glielo hanno permesso. Negli ultimi mesi i problemi di salute lo hanno costretto a diversi ricoveri in ospedale, senza tuttavia minare la sua bonomia e il sorriso verso tutti, talvolta trapuntati dall’ironia e dagli spunti caratteriali tipici della sua personalità.

Forte di riferimenti spirituali nella dottrina sociale della Chiesa e nei princìpi sanciti dal Concilio Vaticano II, Giustino Pacifico ha vissuto l’impegno sociale e cristiano con un ricco bagaglio di valori interiori e con un’autentica attenzione verso il prossimo. Un impegno sociale portato avanti anche in campo politico, come amministratore comunale competente e attento. Fu infatti eletto nel 1975 al Consiglio comunale dell’Aquila con un forte consenso popolare, nella lista della Democrazia Cristiana, e con Ubaldo Lopardi sindaco fu per tre anni Assessore alle Politiche sociali fino al 1978, uscendo dall’amministrazione quando venne costituita la prima Giunta di sinistra. All’inizio degli anni Duemila fu eletto Presidente della X Circoscrizione e per l’intero mandato seguì con assiduità ed impegno le problematiche del territorio di Paganica e delle sue cinque frazioni.

Sempre presente ed operoso in ogni iniziativa di carattere culturale e sociale, Giustino ha dato un esempio duraturo d’impegno al servizio della nostra comunità. L’Aquila, e Paganica suo amato paese natale, della bella testimonianza di amministratore e uomo impegnato nel sociale, che egli ha dato per lunghi anni, ne avranno per sempre grata memoria. Anche chi scrive, con affetto e ammirazione, ha l’orgoglio di aver con lui condiviso un intero quinquennio a Palazzo Margherita e di averlo apprezzato come amministratore civico assiduo e competente, come pure per il profondo ancoraggio che egli aveva nei valori e negli ideali del Cattolicesimo democratico.

Giova ora aggiungere qualche altra considerazione che non sia solo per un ricordo, quanto invece un tributo di riconoscenza nei confronti di Giustino Pacifico, per la testimonianza di vita che egli ha reso in seno alla comunità aquilana, in generale, e a quella paganichese in particolare. Questi pensieri sono affrancati dai sentimenti personali e privati, di amicizia e di vincoli di parentela, perché la mamma di Giustino, Lucia - insieme ai fratelli Temistocle, Aristide, Licia e Teodolinda -, era una Palmerini, figlia di mastro Adamo Palmerini, fratello di mio nonno mastro Peppe. Giustino si era alimentato giovanissimo alle fonti del cattolicesimo democratico e sociale, agli inizi degli anni Cinquanta. Nelle Acli, il movimento dei lavoratori cristiani che nel 1944 era stato fondato da Achille Grandi insieme a Giulio Pastore e all’aquilana Maria Agamben Federici, Madre costituente, ed ad altri, Giustino Pacifico mosse i primi passi del suo impegno sociale.

Ebbe poi fondamentali riferimenti nel “personalismo” cristiano in politica, pensiero filosofico elaborato da Emmanuel Mounier che in quegli anni aveva epigoni nel mondo politico italiano in Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati e Amintore Fanfani, i cosiddetti “professorini”, davvero dei giganti del pensiero cattolico democratico. E poi altri maestri in seno alle Acli come Livio Labor, Emilio Gabaglio, Domenico Rosati, solo per citare i più significativi. E ancora riferimenti profondi ebbe nella Dottrina sociale della Chiesa, dall’enciclica Rerum novarum di Leone XIII alle successive Populorum progressio di Paolo VI e Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II. Ma più di tutto influirono su di lui il Concilio Vaticano II e il magistero pontificio giovanneo e paolino.

Dunque Giustino Pacifico sapeva bene davvero da dove veniva. E soprattutto dove doveva andare. Questa osservazione, che potrebbe apparire pedante con tante citazioni di personalità del mondo cattolico, non è per nulla casuale. In una società dove tutto è “liquido”, come osservava il filosofo e sociologo Zygmunt Baumann, dove sono venute a mancare le radici del pensiero che dovrebbero orientare l’uomo del nostro tempo, la testimonianza di persone come Giustino Pacifico, che hanno dedicato la loro vita al Bene comune e agli altri, specialmente i più bisognosi, è l’unica speranza che resta per un domani diverso e migliore. D'altronde oggi più che mai vale quanto nel 1974 disse Paolo VI: “Il mondo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri”. E questo è il merito di Giustino, dando testimonianza con le sue opere, con la discrezione, la semplicità e l’umiltà del suo tratto, essendo ogni giorno il “buon Samaritano” verso la comunità della quale sempre è stato al servizio. In questa circostanza dolorosa per la sua scomparsa abbiamo avuto difficoltà a trovare una sua foto, persino in famiglia. E’ una dimostrazione icastica della sua riservatezza, di come Giustino fosse schivo verso ogni apparenza. Oggi che l’apparenza, sfrenata ossessiva e invereconda, sostituisce in ogni ambito l’essenza, Giustino Pacifico lascia un esempio di elevata dignità di “come essere” nel difficile tempo che viviamo.

La sua testimonianza autentica di cristiano, di uomo impegnato nel sociale, di uomo delle Istituzioni, sono un modello per tutti, per questa nostra comunità, per le nuove generazioni che possono nutrirsi appunto solo di buoni esempi più che di parole. E’ stato un uomo legato alle tradizioni, quelle vere ed autentiche. Poteva apparire talvolta un “conservatore” sotto questo punto di vista, ma sarebbe solo un abbaglio nel giudizio, perché chi ha avuto il privilegio di conoscerlo fino in fondo scopriva invece la sua lucidità nel saper traguardare oltre, di saper immaginare i contorni di una società più evoluta. Egli operava sempre scelte in linea con la sua visione di futuro.

Questo è il pregio di chi affonda le proprie radici nella sapienza di un pensiero politico, sociale e culturale maturo e consapevole, a differenza della futilità estetica, della miseria intellettuale e della pochezza politica del tempo attuale, dove tutto è limitato all’effimero e al presente, alla ricerca del consenso immediato. Proprio il contrario di quanto affermava un grande statista come Alcide De Gasperi, che soleva riprendere una citazione di James Freeman Clarke (1810 – 1888), teologo statunitense: “Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo paese”.

Goffredo Palmerini