Il Bambino nella culla di paglia

Le Madonne e gli altri santi abilmente eseguiti da Manola Artuso, 51 anni, laurea in pittura a Brera, bassina, sottile, bella, e da suo marito Gianluca Seregni, cinquantacinquenne, abile e sensibile pittore naif, nel loro laboratorio “La Stele” di viale Certosa 91, a Milano, prendono anche la via dell’estero, come tantissimi italiani (24 milioni soltanto tra il 1860 e il 1973), che emigrarono per ragioni diverse: il bisogno di un pezzo di pane. On i loro Bambinelli vengono richiesti da chiese dell’America Latina, dell’Africa, della Spagna… Sono figure ad altezza naturale, dall’incarnato roseo, realistico. Sembrano il frutto di un dialogo, tra i due artisti, e il modello. I collezionisti e i semplici clienti sono soprattutto meneghini e lombardi, il cui flusso è frequente soprattutto in questi giorni in cui luci multicolori pulsano sui balconi, incorniciano gli ingressi dei negozI, sui pali ad arco nelle strade, sugli abeti dei supermercati.

Una volta a Milano e in Lombardia si faceva solo l’albero di Natale; poi i tempi sono cambiati e anche nei templi in centro e in periferia, nelle case private, si è cominciato ad allestire, magari sotto l’albero con il puntale argenteo, il presepe, grande, piccolo: meravigliosa evocazione della Natività, che richiede arte e devozione. Ognuno, per costruirlo, usa il materiale che preferisce, compreso il polistirolo; e tante sono le statuine eseguite da Manola e Gianluca: Re Magi, pastori e ogni elemento che richiama i valori di quest’architettura: l’acqua, simboleggiata dal laghetto, dal mulino, dalla fontana, dalla donna che spande i panni o porta la brocca sulle spalle; il fuoco: il paiolo per cuocere la polenta, il fornaio, il camino, la lampadina rossa che palpita sotto i tre paletti incrociati in alto; la cometa, le luci, che danno al presepe un aspetto teatrale. L’acqua significa la rigenerazione; il fuoco la purificazione… Nei vecchi presepi lombardi mancavano il pizzaiolo e il pescivendolo, presenti invece in quelli napoletani, dove la pizza è sempre stata largamente diffusa molto prima di essere, nel 1929, introdotta a Milano dal ristorante Santa Rita, a due passi da piazza San Fedele.

Ho osservato attentamente Manola e Gianluca (esperti anche nel restauro: hanno ridato vita a tantissimi pezzi di valore enorme, recentemente a opere della parrocchia di Albonese nel Pavese) mentre spalmavano il gesso nella matrice di un San Giuseppe in preghiera; e ho apprezzato l’amore e la dedizione con cui svolgevano questo lavoro. Sono rimasto un bel po’ di tempo nel laboratorio e nella sala affollata di zampognari, guardastelle, suonatori… tutto il popolo del presepe, fonte di felicità non soltanto per gli artefici, spesso veri artisti, ma anche per i bambini, che davanti a queste strutture s’incantano. Manola e Gianluca manipolano la materia con lena, ma non lesinano le informazioni a chi domanda. E ad ascoltarli c’è da imparare davvero tanto. Accennano alle scenografie in Lombardia nel XVI e XVII secolo; descrivono le rappresentazioni di Francesco Londonio, che fu uno degli artisti più invitati e riveriti nei salotti meneghini; le vecchie botteghe che sfornavano statue prestigiose, come quella di via Copernico 8, nei pressi della stazione Centrale; artigiani di una bravura eccezionale; la gloriosa tradizione presepiale nel Bergamasco...

Autentici appassionati del presepe e orgogliosi del loro impegno (in Giappone hanno dedicato loro un volume), conoscono l’attività dei figuli di altre regioni, come i pastori del calabrese Michele Morrone; i portatori di doni del pugliese Sergio Bruno; i Re Magi di Giovanni Mastro di Grottaglie; il pecoraio di Marco Serafino di Ruffano; le casette del leccese Antonio Grazioli… ; e le grandi collezioni custodite in musei, come quello di Brembo di Dalmine; il presepe genovese con personaggi in terracotta colorata, quelli di Elsa Berla, creati a suo tempo in un appartamentino di via Pontaccio, nella città del Porta; i presepi di carta conservati nella Raccolta Bertarelli; le statuine di Guido De Zan... Insomma tanti particolari della storia del presepe, che suscita anche ricordi personali. Riemergono dall’archivio della memoria i presepi fatti per noi bambini dai nostri genitori con fogli di giornali immersi in un secchio con argilla innaffiata d’acqua, rami di pino vero rapinati a un pino chissà dove, le figure sagomate dalla mamma che aveva il dono di una certa manualità (erano i tempi del dopoguerra e c’era poco da spendere), mentre il nonno, tra i ghirigori sprigionati dalla pipa fatta di un fornello di creta e un cannello ricurvo, s’impegnava a raccontare la nascita di Gesù da lui inventata al momento, ma con tanta passione e fede da commuovere. Davanti a quella ricostruzione, dove l’illuminazione era data da una comune lampadina nascosta dietro una grotta o una collina più alta delle altre si restava immobili ed estasiati. Presepi messi su in qualche maniera su scheletri di legno sottile con erba raccolta nel prato vicino e muschio ricavato dalla facciata di un edificio lebbroso.

Oggi i presepi sono spesso opere d’arte, capolavori come quelli visti qualche anno fa a Cantù in una mostra che presentava manufatti raffiguranti cascine con la natività nella stalla, i pomodori e le cipolle, il granturco e altro appesi sul ballatoio, i visitatori inginocchiati nel cortile, le galline accovacciate sotto alberi realizzati con rametti naturali. Gesù può nascere ovunque, anche in aperta campagna e in Puglia in un trullo, ma è nel nostro cuore che emette il primo vagito.

Presepi sorgono in ogni parte d’Italia, come testimonia il Museo di Brembo di Dalmine, che, famoso in tutto il mondo, venne creato da Giacomo Piazzoli e allinea centinaia di opere provenienti da ogni parte: dalla Toscana, da Genova, da Napoli, da Brescia da Lecce, dagli Stati Uniti, dal Portogallo… Esistono associazioni amici del presepe, come nel Bresciano, i cui soci realizzano strutture spettacolari anche di decine di metri. Il presepe dà gioia anche al laico impenitente: è atmosfera, esercita da sempre un’attrazione speciale. E’ un racconto scenico, fascinoso, colpisce persino il nome, che viene dal latino e vuol dire mangiatoia.

Sin da quando ero un marmocchio aspettavo con ansia il Natale, anche perché, come detto, in un angolo della casa, alquanto modesta, si sarebbe impiantato un panorama frequentato dal taglialegna, dal contadino con un agnellino in braccio da portare alla capanna, dalla donna con il grembiule e i capelli raccolti in un fazzolettone, un cesto in testa. Quando avevo 18 anni divenni amico dell’indimenticabile professor Raffaele D’Addario, pittore, già scenografo a Cinecittà, e lo accompagnavo con grande piacere al laboratorio della Casa del Presepe di Taranto, dove il titolare, Antonio Mazzarano, deceduto a oltre 90 anni un paio di anni fa, aveva trasmesso al figlio Giuseppe l’amore e la capacità di maestro di quest’arte sublime (oggi il negozio è condotto dalla nipote Grazia Spataro, molto soddisfatta del movimento di questi giorni, perché nella Bimare l’abitudine del presepe è antica). Da allora ho sempre seguito questi percorsi luminosi, affascinanti, meravigliosi, ovunque fossero, come a Crispiano, città in cui gli Amici da sempre li fabbricavano con quintali di pane ammuffito o di biscotti scaduti, riscuotendo un successo meritato.

A Milano ogni anno visitavo il presepe animato in piazza Duomo (il fabbro arroventava il ferro nella fornace; il falegname piallava inondandosi di trucioli…) e il negozio di articoli religiosi di via Montebello, dove a Natale venivano allineati “carillons” che intonavano “Tu scendi dalle stelle” e statuine di ogni tipo, anche in resina, oltre che in terracotta, gesso, cartapesta con abiti veri della vita quotidiana; e presepi in sughero con tetti di legno rivestito di paglia. Poi quell’esercizio abbassò la saracinesca, conquistata da manovratori di spray che vi tracciavano segni incomprensibili in nero. Dopo qualche anno mi fu indicato “La Stele” di Manola e Gianluca, un luogo storico, una bottega, un laboratorio, un regno, abitato da asinelli, pecorelle, e altri animali, come oche, uccellini e conigli, oltre che da statuette destinate a caverne, sentieri, passaggi, ponti, archi, salite, discese, in compagnia di molte altre che fanno del presepe un paese, un paesaggio, tra “piselli” policromi che danno toni diversi agli ambienti: strade, camminamenti, anfratti. Lo spettatore vorrebbe sentirsi dentro a quegli ambienti, farsi partecipe, essere pastore o zampognaro o magari il bue che con il suo fiato scalda il corpo di Gesù: il presepe è anche sogno, oltre che messaggio di luce, di pace in un mondo in cui è piombata l’oscurità dell’anima. La brutalità è una trappola che sta dietro l’angolo.

Fonte: Goffredo Palmerini