L’Europa che vuole il Partito Democratico.

Intervento-fiume di Elly Schlein nell’appuntamento programmato nel Veronese

 

 

 

 Servizio e foto di

Claudio Beccalossi   

 

   Legnago (Verona) - Tappa nel capoluogo della Bassa Veronese di Elly Schlein (ufficialmente Elena Ethel, Lugano, Svizzera, 4 maggio 1985, italiana con cittadinanza americana naturalizzata svizzera, segretaria del Partito Democratico dal 12 marzo 2023), nell’ambito del Forum Europa, itinerario in Italia tra l’elettorato “amico” ed i simpatizzanti incerti verso le elezioni europee dei giorni 8 e 9 giugno prossimo (il Consiglio dell’Unione Europea ha deliberato all’unanimità il periodo di voto tra il 6 ed il 9 giugno, con facoltà di ciascun Stato membro di tenerle tra queste date, in base alla propria prassi nazionale).

   Ospitato nell’Hotel Pergola, in via Verona 140, il convegno ha radunato, anche con vari interventi, parlamentari europei, senatori e deputati, consiglieri regionali, sindaci ed amministratori locali, rappresentanti sindacali, dell’associazionismo, degli ambiti economico e sociale, docenti universitari, dirigenti, iscritti e simpatizzanti del Partito Democratico (appartenente al PSE - socialisti & democratici - , Partito del Socialismo Europeo o Partito Socialista Europeo, d’orientamento socialdemocratico e laburista fondato nel 1992) sul filo conduttore “L’Europa che vogliamo. Sociale, verde, giusta. Che investe nella qualità del lavoro e dell’impresa”.

   Vari i contributi che si sono alternati prima e dopo l’affondo atteso di Schlein, tra cui quello dell’europarlamentare Alessandra Moretti (Vicenza, 24 giugno 1973).

 

«La transizione verde deve essere giusta»

 

   «Ci siamo battuti tanto affinché nel patto digitale venissero contenuti anche gli effetti sociali, perché abbiamo diritto di conoscere chi produce un prodotto ed a quali condizioni. Sappiamo che nel mondo nel settore tessile ci sono sessanta milioni di lavoratori impiegati, la maggioranza sono donne, spesso sono bambini, tutti sottopagati, sfruttati. Ricordiamo la tragedia del Rana Plaza, la fabbrica tessile in Bangladesh dove, undici anni fa, sono morte più di 1.100 persone. In quella fabbrica si realizzavano dei vestiti che, per pochi euro e senza porci tante domande, compriamo anche qui, in Europa».

   «Ma dove vanno a finire gli scarti, tutti quei prodotti di cui ci disfiamo? - s’è domandata provocatoriamente l’europarlamentare - Ciascuno di noi, mediamente, consuma e butta all’anno 12 kg di vestiti, andando ad inquinare soprattutto i Paesi più poveri che, da sempre, diventano ricettacolo di quello che noi occidentali, appunto, non utilizziamo più. La sovrapproduzione, il sovraconsumo stanno determinando un danno immenso al nostro pianeta, spesso nell’indifferenza generale ed anche del mondo della politica».

   «Le sfide sono molte, il cammino ormai è tracciato. Questa transizione verde deve essere giusta, che si prenda carico delle esigenze delle fasce più povere, vulnerabili della popolazione e che tenga in dovuta considerazione tutti gli interessi in gioco. Purtroppo, la transizione è una storia difficile da raccontare, difficile da vendere politicamente. Ma non dobbiamo cedere ed il nostro impegno deve fare in modo che anche nel corso della prossima legislatura europea queste politiche, a favore della sostenibilità, non vengano accantonate, anzi, riprendano il loro percorso attraverso un pacchetto straordinario di risorse necessarie alla transizione giusta. Siamo infatti molto lontano dal raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica e, se non continuiamo a spingere in questa direzione, purtroppo le conseguenze per il nostro pianeta saranno devastanti».

 

Vari temi caldi nel contributo a raffica di Elly Schlein

 

   «Siamo venuti qui, non a caso nel cuore d’un territorio molto importante, strategico per il resto del Paese, ad ascoltare quali siano le esigenze. Perché queste sono cambiate e la politica non può arrivare sempre in ritardo rispetto alle loro mutazioni. Qual è, inoltre, la resilienza che il mondo produttivo ed economico di questo territorio (e non soltanto) ha dimostrato in anni di crisi intrecciate? Per noi sentire, interrogarci insieme su quali possano essere le strategie di sviluppo e direttrici d’investimento dei fondi europei, nazionali, regionali è fondamentale. Non pensiamo sempre d’avere la verità in tasca. Veniamo con grande piacere ad ascoltare, ad imparare, a scrivere insieme politiche migliori, perché le sfide sono tante e sono complesse».

   «Pensate alla crisi economico-finanziaria che sta mordendo ancora forte alle caviglie del nostro Paese. L’abbiamo vista sulla situazione dei redditi, sulle disuguaglianze che sono aumentate, sulle fatiche del mondo delle imprese. Abbiamo poi avuto una crisi climatica che s’è aggravata anno per anno e che non possiamo assolutamente negare, come fa qualcuno (purtroppo anche al governo), perché in realtà siamo uno dei territori più fragili, più esposti agli eventi climatici estremi. E questo ha delle ricadute sia sulle persone che sull’economia. Pensate al settore dell’agricoltura».

   «Alle crisi - ha rimarcato Schlein - s’è aggiunta la pandemica, che è stata un acceleratore anche quella ma un acceleratore di disuguaglianze, però ci ha dato anche lenti nuove, per vedere problemi antichi che la politica non stava trattando con sufficiente cura. Al contempo torna purtroppo a soffiare vento di guerra nella nostra Europa. Vorrei che anche qui dessimo solidarietà alle famiglie delle vittime del tragico attentato terroristico a Mosca».

   «Perché siamo federalisti europei convinti? Perché crediamo che serva una maggiore integrazione delle politiche? Ma per un fatto banale. Le sfide su cui ci giochiamo il futuro sono varie: l’energetica e la climatica, la migratoria, la pace e, quindi, la sicurezza e la difesa comune europea, le disuguaglianze, il contrasto alla grande evasione ed elusione fiscale delle multinazionali, questione squisitamente europea od almeno europea. Sono tutte situazioni che non possiamo più risolvere solamente dentro ai nostri confini nazionali. Se assumiamo consapevolezza di questo allora la sfida per restituire davvero la sovranità ai cittadini, come dice la Costituzione, non è, come qualcuno racconta, chiuderci in territori e recinti sempre più stretti».

   «Dopo queste crisi ci siamo rialzati perché il primo che si rialzava non partiva correndo ma si voltava indietro e tendeva la mano a quello che faceva più fatica. Questa è la chiave del buon sviluppo che s’è saputo creare».

 

Il Next Generation EU, grande piano di investimenti comuni

 

   «Alcuni elementi che si sono messi in campo in questi cinque anni come risposta alla pandemia, nel quinquennio precedente erano impensabili, dei tabù. Parto dal più importante e significativo, il Next generation EU che è, senza ombra di dubbio, il più grande piano di investimenti comuni della storia dell’Unione Europea e che ha visto il nostro Paese quale maggior beneficiario. Parliamo di oltre 200 miliardi di euro di investimenti da prestiti a fondo perduto. Un’insostituibile occasione di rilancio e d’ammodernamento del nostro Paese, delle sue infrastrutture, della sua economia, del digitale, della conversione ecologia, della riduzione dei divari».

   «Ho una preoccupazione. - s’è lamentata la segretaria del Partito Democratico - La finestra d’opportunità che s’è aperta dopo la pandemia per effetto dell’intrecciarsi di quelle crisi e d’una nuova consapevolezza, viva Dio!, oggi rischia di chiudersi. Per una normalizzazione voluta soprattutto dalle destre nazionaliste, da quelle che dall’inizio non volevano andare in questa direzione così cruciale per l’Italia. Il Next generation EU è stato un primo, ancora timido embrione di politica industriale europea e noi, in un Paese con vocazione e tradizione industriali come la nostra, abbiamo necessità d’una politica industriale europea. Ne abbiamo bisogno perché, se ci ritiriamo negli egoismi nazionali e nella rigidità della disciplina degli aiuti di Stato, succede che chi ha più margine fiscale sarà più attrezzato per fare investimenti sulle nuove filiere indispensabili per il rilancio dell’economia europea. Cioè, se non continuiamo sulla strada degli investimenti comuni, l’Italia rimane indietro e, se l’Italia rimane indietro, rimane indietro anche l’Europa».

   «Ma non siamo la Germania, non abbiamo il margine per fare gli investimenti corposi che sono stati fatti in questi anni. Ed allora abbiamo bisogno d’una mutualizzazione delle responsabilità europee, d’avere risorse proprie europee che accompagnino le nostre imprese, soprattutto quelle piccole e medie che sono il cuore vivo dell’economia italiana. Da sole come fanno ad avere la stazza per fare investimenti in innovazione e ricerca per stare al passo con questi cambiamenti? È lì che c’è lo spazio per una politica industriale europea ed italiana che le prenda per mano e dica “questo è l’incentivo con cui t’accompagno a fare cambiamenti”, “non ti lascio lì da solo, davanti a cambiamenti spaventosi”».

   «Esiste un’altra opzione, badate, è quella della destra: è semplice, come facevamo da bambini. C’era un problema? E cosa facevamo? Ci chiudevamo gli occhi. Avevamo paura del buio, del mostro, del babau? Ci chiudevamo gli occhi. La destra sta facendo così, davanti a dei cambiamenti che sono innegabili. L’emergenza climatica è già realtà. Chiedetelo a chi è stato colpito l’anno scorso dalle alluvioni e che, dopo tutti questi mesi, sta ancora aspettando i ristori promessi al 100%».

  

«Dare continuità agli investimenti comuni»

 

   «Un problema molto serio è la scarsità di risorse idriche in Italia. Sappiamo cosa vuol dire. Siccità, eventi estremi, alluvioni, tempeste. Dobbiamo dare attenzione alle aree interne e contrastare il loro spopolamento. Il pubblico deve portarvi i servizi. In una visione integrata l’Europa deve vedere queste differenze e mettere in campo degli strumenti che noi decliniamo secondo le esigenze diverse dei nostri territori. Questo governo invece cosa fa? Va anche a privatizzare le poste, decisione che stiamo contrastando perché i primi uffici postali che salteranno saranno quelli decentrati, insieme agli sportelli delle banche, rendendo la vita difficile in quelle aree».

   «Alcune proposte che stiamo raccogliendo in questo bel tour dell’Italia riguardano proprio questo: dare continuità agli investimenti comuni. Mario Draghi parla di 500 miliardi di euro all’anno che sarebbero necessari all’Europa per stare al passo e competere con gli altri player globali su transizione ecologica e digitale. L’intero Next Generation EU è di 750 miliardi per un certo numero di anni. Non posso pensare che gli egoismi nazionali c’impediscano d’essere all’altezza di queste sfide come Europa e di mettere in campo una politica industriale».

   «Noi abbiamo già il più grande programma di ricerca condiviso al mondo, il programma europeo Horizon. Accanto a questo servono politiche industriali che rendano sviluppo. Cosa impedisce ad un Paese che ha una tradizione industriale come la nostra di sviluppare qui la filiera che serva per le rinnovabili? Chi impedisce a quanti sono da un anno e mezzo al governo di non svegliarsi scoprendo che a Catania c’è la più grande fabbrica europea di pannelli solari? Perché deve essere l’unica? Perché dobbiamo partire già rassegnati invece di dire “mettiamoci al tavolo con tutte le categorie produttive, le associazioni di categoria economica, i sindacati, il terzo settore e definiamo una strategia condivisa”? Penso che questa sia la strada che abbiamo davanti, le filiere, le innovazioni, con la consapevolezza che senza le competenze ed un grande investimento dei saperi non possiamo fare queste transizioni».

 

«Bassa occupazione femminile, danno all’economia»

 

   «Vuol dire aggiornare anche il nostro sistema d’istruzione. E qui apro una parentesi su un tema importante. Per il Partito Democratico la scuola pubblica va salvata e finanziata di più. Secondo  studi specifici, nelle regioni del sud abbiamo i tassi d’occupazione femminile più bassi d’Europa. Questo grado d’arretratezza e d’ingiustizia nell’accesso delle donne al lavoro ed all’impresa è un danno all’economia. Non è solo un problema di diritti e di parità. È anche un fatto di opportunità economiche mancanti. La Banca d’Italia diceva qualche anno fa che, se arrivassimo alla piena parità occupazionale, si libererebbero 7 punti aggiuntivi di Pil. Allora, investire negli asili nido vuol dire rendere più solidi i percorsi educativi dei bambini, prepararli meglio al futuro, dar loro più opportunità. Vuol dire pure che sappiamo su chi ricade il carico di cura non pagato all’interno delle famiglie italiane, soprattutto sulle donne. Ciò le frena dal punto di vista dell’impresa e del lavoro. Investire nei nidi ha un doppio ritorno: crea lavoro di qualità negli specifici settori ad alta percentuale d’occupazione femminile e, al tempo stesso, libera l’attività di altre donne che, se mancano quei servizi e non hanno accanto qualcuno della famiglia che le aiuta, rinunciano a lavorare».