What a Wonderful World (in italiano: che mondo meraviglioso) è la famosa canzone scritta da Bob Thiele e George David Weiss, interpretata per la prima volta da Louis Armstrong nel 1967, ma vediamo un po’ qual era il messaggio di quella nota ballata.

Essa invitava alla scoperta del piacere della vita, esaltando la bellezza del mondo e della diversità fra le genti, oltre a costituire un invito a non perdere la speranza nel futuro, in un clima di scoraggiamento e di tristezza causato dalla guerra in Vietnam. Armstrong, all’epoca, beniamino del pubblico, come tutti ricorderanno, fu un ottimo interprete del brano musicale e del messaggio ad esso collegato.

Questa breve introduzione sta a dimostrare, ancora una volta, che, quando l’amara realtà del mondo in cui viviamo diventa tragica, l’artista si affida alla fantasia, per invitare a sperare in un mondo migliore, confidando magari – sulle orme di Picasso – che tutto quello che si può immaginare può essere reale.

Ma lo è davvero? Forse per gli artisti!

La gente comune, come noi, non vive di poesia, vive di realtà. La logica vi porterà da A a B, l’immaginazione vi porterà dappertutto sosteneva, per l’appunto, la buonanima di Einstein.

Infatti, pur con la più fervida delle fantasie, il popolo, che non è poeta, non ha come sottrarsi alle ingiustizie e alle avversità che la vita quotidianamente gli riserva.

Un mondo di pace? È un’utopia, ma ciò non vuol dire che ci debbano essere necessariamente guerre sparse per il mondo, nel senso tradizionale e come le abbiamo sempre conosciute, ovvero basate sulla conquista di territori e sulla distruzione materiale di beni e valori del nemico.

Il mondo cambia? No, si fa per dire perché siamo noi, in realtà, a cambiare e le guerre pure.

Le guerre di oggi sono differenti. Sono guerre solo come traslato stilistico, ovvero guerre c.d. asimmetriche che agiscono su piani differenti da quello propriamente militare, pur permanendo l’apparato bellico come deterrente e sinonimo di potenza territoriale.

Le guerre moderne, non tradizionali, si combattono silenziosamente, senza armi ed eserciti. Sono studiate a tavolino in forma sottile e perversa. L’arma principale è l’economia, il mezzo di conquista, la paura e il panico, che vengono iniettati lentamente, ma incessantemente, ad hoc, attraverso gli indicatori economici in questo o in quel mercato azionario e finanziario. Campagne diffamatorie sui mezzi di comunicazione di massa, pressioni economiche sui governi, controlli sugli scambi di merci con barriere doganali, violazione di brevetti, e non solo, fanno il resto. In buona sostanza, si tratta di guerre psicologiche, che portano, senza spargimento apparente di sangue, alla lenta, ma inesorabile, sottomissione del territorio interessato.

A favorire in modo determinante queste nuove tattiche di guerra è stato il fenomeno della globalizzazione. Con esso si è creata la spersonalizzazione dell’individuo nella società planetaria, l’appiattimento del nostro sistema di vita. La globalizzazione, infatti, annulla le diversità: la diversità biologica, la diversità sociale, la diversità culturale, la diversità identitaria, la diversità scientifica, la diversità estetica, la diversità alimentare e qualsiasi altra conosciuta.

È la massificazione propria della civiltà dei consumi.

La massificazione di certo non è un fenomeno nuovo, è vero. Essa, sotto varie forme, esiste sin dalla notte dei tempi, ma con l’avvento della società industriale, tecnologicamente avanzata, è sicuramente diventata un fenomeno ancora più impattante che nel passato e, per ciò, oggetto di critica e analisi negativa da parte di filosofi, economisti e artisti di riconosciuto prestigio.

Tanto per rendere l’idea, Theodor Adorno e Max Horkheimer, rispettabili esponenti della Scuola di Francoforte, hanno chiaramente denunciato il potere massificante esercitato con la "persuasione occulta" della cultura pesantemente diffusa dai mezzi di comunicazione di massa e dall'industria culturale (Dialettica dell’Illuminismo, 1947). “La massa”, scrive al riguardo José Ortega y Gasset, ormai “travolge tutto ciò che è differente, egregio, individuale, qualificato e selezionato. Chi non è come tutti, chi non pensa come tutti, corre il rischio di essere eliminato”.

Le reazioni a questo travolgente e sconvolgente fenomeno, noto come “globalizzazione”, non sono di sicuro mancate, in vari momenti e in varie località del mondo, ma l’obiettivo dei “No Global” era ed è, per sommi capi, quello di sottrarre i popoli al dominio della Finanza internazionale, che si preoccupa del proprio benessere immediato e non di quello dei cittadini, incurante del futuro, dei danni all’ambiente e dell’esaurimento delle risorse naturali.

Ma il problema non è solo questo. C’è qualcosa di più sottile e profondo che minaccia l’Umanità massificata, ovvero gli schiavi moderni.

Tutte le diversità, biologica in testa (genetica, di specie e di ecosistemi), hanno un motivo specifico di esistenza. Esse servono da scudo e protezione contro eventuali eventi catastrofali e annullarle vuol dire perdere l’immunità dispensataci da Madre Natura.

La massificazione, figlia della globalizzazione è un’illusione: vince la battaglia, ma perde la guerra così come i vaccini (“I vaccini sono un’illusione”, saggio della dott.ssa Tetyana Obukhanych, immunologa). Essi coprono soltanto una frazione minima della grande biodiversità dei ceppi batterici e, quando si eliminano, quelli per i quali sono stati creati, altri ceppi prendono il sopravvento e crescono a dismisura.

Annullare le diversità significa mettere a serio rischio la razza umana e il nostro mondo, almeno per come lo conosciamo. Ravvediamocene finché siamo in tempo, perché il nostro non è, purtroppo, il Wonderful Word della canzone, ma, recitando Don Marquis, un mondo in cui le persone non sanno cosa vogliono e sono disposte a passare un inferno, pur di ottenerlo.

G. & G. Arnò